Abbiamo intervistato Massimo Belli. Di base a Roma, scrive testi critici per gallerie d’arte come Niccoli e Operativa. È project manager di Hypermaremma, il festival di arte contemporanea in Toscana. È diventato Direttore Artistico dell’Associazione per l’Arte e Più di cui parleremo in una prossima intervista.

Curatore o storico dell’arte

Com’è nato il tuo percorso di curatela?
In realtà, credo che negli ultimi anni sia stata creata confusione riguardo al termine “curare”. Io sono, innanzitutto, uno storico dell’arte contemporanea specializzato in arte italiana e internazionale entre deux guerres e di secondo Novecento. Questi sono gli strumenti con i quali inizio a operare, le lenti attraverso le quali osservo l’arte. Sopra questa scorta teorica, ho sedimentato la ricerca e la pratica di galleria, che segue delle logiche molto diverse dagli studi universitari.
La prima esperienza di Massimo Belli con una galleria d’arte

Qual è stata la tua prima esperienza con una galleria d’arte?
La prima opportunità l’ho avuta con la Galleria d’Arte Niccoli di Parma, che ha “scommesso” su di me prima ancora che finissi gli studi, aiutandomi nel reperimento di tutti i documenti utili a raccontare la biografia di Conrad Marca-Relli, artista-chiave dell’Espressionismo astratto americano. Da questa generosità è poi nata una collaborazione che dura tutt’oggi. Lavorare sin da subito con una realtà con oltre cinquant’anni di storia ha cambiato la mia visione e il mio approccio al contemporaneo storicizzato e non, mi ha consentito di imparare come si “mette a terra” un progetto espositivo, come si trovano le opere e come si fa ricerca e archivio a certi livelli. Avere la possibilità di viaggiare, incontrare gli attori del settore e parlare un certo “gergo” di questo mondo è come mettersi a studiare di nuovo, perché devi imparare una grammatica prima sconosciuta. La mia fortuna è stata quella di apprendere sul campo senza, però, perdere la via di casa: l’universo Niccoli vive dell’armonia che Roberto e Marco hanno creato negli anni, con l’uno capace di custodire e amministrare l’archivio e il magazzino che sono la spina dorsale della Galleria e l’altro in prima linea per generare le nuove opportunità e aprire frontiere. Poter imparare da entrambi mi ha fatto capire l’importanza di sapere da dove vieni per decidere dove andare.
La Galleria Mattia De Luca
Con quali altre gallerie hai collaborato o stai collaborando?
Parallelamente ho avuto l’opportunità di vivere da vicino quel che ho sempre studiato e ammirato solo sui libri, collaborando con la Galleria Mattia De Luca per mostre meravigliose come quelle di Marca-Relli e di Morandi. Devo molto a questa esperienza, perché mi ha abituato a tenere alta l’asticella, a pensare in grande come fa Mattia. Questo percorso di “recupero della pratica” ha avuto una forte accelerazione nell’ultimo anno, con il coinvolgimento all’interno delle attività di Operativa Arte Contemporanea di Carlo Pratis, con il quale condivido anche tutta la logistica realizzativa di Hypermaremma.
Operativa Arte Contemporanea
Com’è il tuo rapporto attuale con Operativa Arte Contemporanea?
Con Carlo credo di aver fatto un grande balzo in avanti in termini di “militanza” nel contemporaneo, perché – vuoi anche che alla base del nostro rapporto ci sia innanzitutto una solida amicizia – mi da’ la possibilità di lavorare a tutte le fasi del processo, sia per quanto concerne l’apporto creativo e progettuale sia riguardo a tutto l’intorno che accompagna e segue un evento espositivo. Con lui ho la possibilità di lavorare a ogni spigolo del processo di galleria: dal conoscere, “scoprire” o “ri-scoprire”, un artista e il suo lavoro, seguirne la produzione, l’ideazione di una mostra, la comunicazione al pubblico fino agli output finali come la stampa o il collezionismo. Questa dimensione di conoscenza e avventura che contraddistingue il lavoro che Operativa compie nel secondo ma, soprattutto, nel primo mercato è un passaggio fondamentale per superare il divario narrativo che distingue un “curatore” di testi da un “curatore” di mostre.
Come storico dell’arte contemporanea, dunque un interprete di qualcosa in divenire, credo fermamente in una dimensione lavorativa di lifelong learning, secondo cui ogni snodo di ciò che faccio costituisce un tassello per far meglio ciò che farò.
L’avventura di Massimo Belli con Hypermaremma

Cosa è per te il festival di Hypermaremma?
Hypermaremma è il mio presente. Conoscevo il festival sin dagli albori grazie alla sinergia che c’è stata su diversi progetti con la Galleria Niccoli. Un paio di edizioni fa, nel 2022, Carlo Pratis mi invitò a seguire l’installazione della gigantesca opera in corten I Giocolieri dell’Armonia di Giuseppe Gallo. Al netto del fatto che nutro una grande stima dell’artista e del suo lavoro, e della possibilità che ho poi avuto di conoscerlo meglio e comprendere la profondità della sua ricerca, quell’occasione mi ha fatto capire che il successivo banco di prova della mia formazione poteva essere una logistica su scala ambientale, su un piano pubblico, in diretta sinergia con gli artisti.
Dopodiché, il tuo coinvolgimento nel festival è diventato un punto fermo?
Da quel momento ho seguito giornalisticamente il festival – attraverso una serie di interviste agli artisti partecipanti – andando spesso ai sopralluoghi, agli allestimenti, agli opening. L’edizione successiva, nel 2023, sono stato invitato a curare in collaborazione con loro l’installazione di Felice Levini Dal Giorno alla Notte, presso il Parco Archeologico di Cosa, ad Ansedonia. In quell’occasione ho capito che non ero così distante dal poter dirigere la logistica di un’installazione ambientale.
Così sei diventato Project manager del festival?
Esatto, dalla VI edizione (2024), ricopro il ruolo di Project manager. Grazie alla fiducia che hanno riposto in me non solo Carlo ma anche Matteo D’Aloja e Giorgio Galotti, tutti e tre co-founder di Hypermaremma. Cimentarsi in una dimensione di arte pubblica è molto stimolante, il festival promuove da ormai sette edizioni un dialogo fra territorio e arte contemporanea capace di ri-attivare la cultura locale in maniera dirompente, coinvolgendo la comunità maremmana a tutti i livelli: dal reperimento dei materiali alla produzione, fino all’installazione e alla partecipazione come fruitore. Questo ciclo, sostenibile a tutti i livelli, genera un plusvalore al territorio che, a sua volta, valorizza le opere degli artisti invitati, incentivati a instaurare un rapporto di armonia e di scambio con la storia, la cultura e la geografia locale.

Le opere diventano installazioni permanenti?
Ogni anno, si cerca di sedimentare una traccia tangibile di questi momenti d’arte, lasciando al territorio opere permanenti che possano sottolineare l’importanza di questi luoghi e creare nuovi punti di riferimento. Mi vengono in mente, su tutti, il meraviglioso neon di Massimo Uberti Spazio Amato all’Oasi WWF del Lago di Burano nell’area di Terre di Sacra, I Giocolieri dell’Armonia di Giuseppe Gallo alla Tagliata delle Dune, il Fontanile di Giuseppe Ducrot a Macchiatonda, Prospettiva Cielo di Mauro Staccioli ma anche Left & Right di Claire Fontaine alla Fattoria Stendardi o Venus Anadyomene di Emiliano Maggi nell’Azienda Agricola Terenzi. Questa sedimentazione punta veloce verso un modello meno borghese di museo, quello del museo diffuso – o dell’ecomuseo –, capace di creare un’attrattiva non per magnificenza o per l’enciclopedicità della visione, quanto per capacità di narrare e tramandare una storia e una tradizione attraverso prodotti della creatività e dell’estetica che siano contemporanei nel modo di comunicare.
Curatela e critica d’arte
Com’è strutturato il tuo lavoro di curatore e critico per le gallerie?
Nel mio lavoro è impossibile prescindere dalle relazioni umane. Oggi continuo a seguire la parte curatoriale di testo per molte delle iniziative della Galleria d’Arte Niccoli, non ultima la bellissima mostra di Sergio Ragalzi Tutte le nostre scimmie, ma anche i testi per le fiere d’arte o i pannelli biografici per mostre e altre occasioni espositive. Ormai sono molto legato agli artisti con i quali la galleria collabora, da Artan Shalsi a CCH, da Jessica Wilson a Nicus Lucà, da Piero Fogliati a Pablo Candiloro, da Alessandro Brighetti a Sergio Ragalzi per l’appunto. Di loro e per loro ho scritto moltissimo. Felice Levini, ad esempio, è stato uno dei primi incarichi ricevuti dalla Galleria Niccoli quando, in occasione di un’edizione di Flashback ho scritto i pannelli biografici. Da lì è nato un rapporto che è tornato più volte a intrecciarsi fino alla mostra che è ora nel Padiglione 9B del Mattatoio.
Gli Artisti di Operativa e la scrittura di testi critici
Quali sono gli artisti per i quali hai elaborato un testo critico?
Lo stesso vale per gli artisti che gravitano nell’orbita di Operativa Arte Contemporanea, per i quali cerco sempre di realizzare testi e scritti che possano raccontare qualcosa in più di quello che si vede in mostra.
Con molti altri artisti ho realizzato interviste e/o scritto piccole riflessioni che sono poi state utilizzate, pubblicate oppure sono diventati testi critici; penso a Giuseppe Gallo, Arcangelo Sassolino, Giuseppe Ducrot, Maurizio Nannucci, Massimo Uberti, Davide Rivalta, Emiliano Maggi, Marco Emmanuele, Guglielmo Maggini, Giulia Mangoni, Tommaso Spazzini Villa, Marcela Calderon Andrade e molti altri che ora sto dimenticando e per i quali farò ammenda quando me ne renderò conto.
L’opinione di Massimo Belli sul mercato dell’arte

Cosa pensi del mercato dell’arte?
Il mercato dell’arte credo soffra di sbilanciamenti, sotto diversi punti di vista, innanzitutto sul piano economico: è un mercato dotato di estrema volatilità in alcune fasce e di grande solidità in altre, però non può che essere l’ultimo anello di una serie di altri mercati che riflettono gli stessi squilibri. Per questo motivo vive di una luce riflessa che, spesso, si manifesta con crisi importanti come quella attuale, caricandosi di tutti i problemi che derivano dagli altri settori. C’è poi un problema di narrazione negativa, che getta un cono d’ombra sulla rilevanza storica che ha avuto e ha tutt’ora il mercato – così come l’operato delle gallerie d’arte – nella produzione degli artisti. Appare ancora sacrilego immaginare i grandi capolavori della storia connessi a un sistema di necessità economiche mentre, invece, ne sono completamente avvolti. Senza i grandi investitori, senza i movimenti economici e le conseguenze che ne derivano, tutto il patrimonio artistico e culturale risulterebbe decimato.
Da dove nasce questo impasse?
Nasce già nelle Università e nelle Accademie, che pensano di “sporcare” l’aura della cultura ogni qualvolta emerge la componente mercificatrice del lavoro. Ritengo questa una lettura sbagliata, che omette dei passaggi fondamentali della storia dell’immagine. Il mercato tiene in vita il lavoro degli artisti: prendendo dei “campioni” di questa narrazione, ci basti immaginare che oggi non conosceremmo il lavoro di Jackson Pollock se non fosse stato economicamente sostenuto da Alfonso Ossorio agli esordi della sua carriera e, andando a ritroso, non potremmo ammirare alcuni dei capolavori di Guido Reni senza i repentini cambi di prezzo che l’artista praticava con il tacito consenso dei Barberini ai danni di altre committenze di prestigio, come quelle nobiliari spagnole.
Per tagliare corto, non faccio fatica a dire che il mercato è l’arte, e viceversa.
Ci sono degli artisti che suggeriresti di comprare a un collezionista?
Ci sono degli artisti che suggerirei di comprare a uno speculatore, ma un collezionista credo che abbia la libertà di acquistare secondo il proprio gusto e guidato da quello che Roland Barthes chiamerebbe il punctum, ciò che di un’immagine suscita in te una ferita. Poi dipende da cosa intende ciascuno di noi per “suggerimento”: chi investe in arte su periodi lunghi cerca certamente artisti che abbiano gallerie solide alle spalle, con produzioni controllate, monitoraggio dei lavori e dei collezionisti che li acquistano; chi vive del mercato, invece, ha necessità di interpretare e, talvolta, creare una domanda, quindi vive di momenti, artisti giusti presi al momento giusto nel tentativo di anticipare un desiderio e un gusto del pubblico; il collezionista nel senso più stretto del termine cerca, invece, una luce all’interno del lavoro capace di convincerlo a spendere una somma per possedere quella micro-frazione di bellezza che è l’opera d’arte. Non vorrei girare intorno alla domanda, ma credo davvero che esistano infinite specificità di collezionismo.
Tu stesso però sei un collezionista…
Sarei tremendamente ipocrita se ti dicessi che consiglio di collezionare gli artisti con cui lavoro, però certamente la mia idea di collezionismo coincide con la mia ortodossia lavorativa; quindi, se prendo l’incarico con un artista ne ho certamente stima e ne apprezzo il lavoro, motivo per il quale riterrei giusto collezionarlo. Se alzo la testa nel mentre in cui rispondo a questa tua domanda vedo il primo lavoro che abbia mai acquistato, un piccolo progetto per un pavimento fatto da Felice Levini a fine anni Novanta.
Agli speculatori non saprei cosa dire, però sono certo che la storia faccia sempre delle pieghe sotto le quali nasconde dei passaggi importanti.
L’arte analogica e l’arte digitale
Come vedi l’arte digitale?
Per rispondere a questa domanda sono costretto a partire un pizzico indietro, chiedendomi innanzitutto cos’è l’arte. Ammettendo che non esista una risposta – o almeno che non esista una risposta univoca –, l’asserzione più plausibile ai miei occhi è che l’arte sia una grande pallottoliere pieno di domande. Puntandosi all’interno della storia, l’artista utilizza la creatività per generare, più o meno volontariamente, degli interrogativi utili a illuminare alcuni punti ciechi di ciò che siamo. Questa capacità di far emergere degli interrogativi si manifesta attraverso immagini o non-immagini che seguono le regole di tutti gli altri linguaggi e, in generale, della comunicazione.
Quindi cosa pendi dell’arte digitale e delle opere d’arte legate al Metaverso?
Credo che nel digitale e, ancor più nello specifico, nel Metaverso fosse inevitabile la proliferazione e la traslazione di forme d’arte. Così come l’esigenza di fissare un modello comunicativo estetico ha indotto un proto-uomo a fissare l’immagine di alcune bestie sulle pareti delle Grotte di Lascaux, allo stesso modo il mondo digitale e del Metaverso ha avvertito l’impellenza di dotarsi di una forma estetica di scambio, come impulso primordiale, sociale e, non ultimo, di riflesso delle strutture di manifestazione del potere appartenenti al mondo reale. Così come l’ultimo ventennio ha reso eterei molti dei nostri desideri, spostandoli sempre più dalla fisicità degli oggetti alla smaterializzazione, così l’arte ha avviato una nuova concretizzazione in un mondo non-fisico nel quale l’equivalente dell’oggetto è rappresentato da un codice. Per tale ragione, credo che questo “Nuovo Mondo” contenga in nuce il medesimo potenziale del “Vecchio Mondo” in fatto di creazione artistica, a patto che riescano a proliferarvi le stesse necessità che hanno guidato l’espressione dell’uomo nel nostro universo.

Collabora da molti anni con riviste di settore come Artribune, XIBT Contemporary, ArtApp, Insideart ed Espoarte, prediligendo l’arte contemporanea nelle sue molteplici sfaccettature e derive mediali.